Racconta

  • Lucania: storie di confino oltre Levi

    22/04/2017

    di Angelo Colangelo

    A 80 anni dall’arrivo in Lucania di Carlo Levi non si possono non ricordare alcuni effetti dell’istituto del confino, adottato dal regime fascista per colpire delinquenti comuni o mafiosi, ma soprattutto per neutralizzare la lotta di coloro che, sempre più numerosi, avversarono il regime dopo l’efferato assassinio di Giacomo Matteotti. Dopo il 1927, anno dell’entrata in funzione del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, e fino al 1943 migliaia di persone furono costrette a lasciare il proprio paese e la propria famiglia, per essere relegate in lontanissime irraggiungibili isole o in sperduti villaggi dell’Appennino.

    Nel 1930, ad esempio, a Stigliano, paese dell’alta montagna materana giunsero un ambulante di Savona, un commerciante veneziano e un insegnante di fisica milanese. Ad Alianello, la minuscola frazione di Aliano, fu destinata invece una levatrice di Reggio Emilia, che vi resterà per oltre un anno. Per tutti gli anni Trenta il fenomeno s’incrementò, assumendo dimensioni particolarmente rilevanti soprattutto ad Aliano, che tra il 1932 e il 1942 ospitò ben 35 confinati, perlopiù per motivi politici. La comminazione della pena confinaria provocò, dunque, una vasta migrazione interna e la Lucania ne fu interessata per la sua perifericità, per la scarsità di vie di comunicazione, per le condizioni sociali arretrate.

    Dei non pochi confinati illustri in Lucania molto si è scritto e si sa: da Carlo Levi, che narrò l'esperienza del confino nel celeberrimo Cristo si è fermato a Eboli, a Manlio Rossi Doria, che, confinato ad Avigliano e a San Fele, sempre ricorderà «la vita di paese con i contadini e i pochi confinati, con la speranza crescente della fine del fascismo», a Camilla Ravera, che, destinata a Montalbano Jonico, fu trasferita a San Giorgio Lucano, dove tra il dicembre del 1936 e il maggio dell’anno successivo, scrisse il bel romanzo "Una donna sola". 
    Piemontese come Carlo Levi e Camilla Ravera, seppur molto meno noto, fu Alfredo Cassone. Nato a Cuneo nel 1898 da Ernesto e da Elvira Pasero, Cassone frequentò le scuole tecniche della sua città e poi si diplomò nel 1925 all’Istituto di Belle Arti di Milano, dove si era trasferito subito dopo il primo conflitto mondiale. Dal 1939 insegnò disegno nelle scuole di avviamento di Ventimiglia e in quel periodo manifestò le sue idee antifasciste, per cui fu condannato al confino a Pisticci, dove rimase sino alla fine della guerra. Qui dipinse nella chiesa di San Rocco ben nove pale che raffiguravano episodi salienti del grande Santo di Montpellier, come testimonia la tavola preparatoria, che qui si propone, di proprietà della famiglia Domenico Caruso. Ma, durante la lunga permanenza in Lucania, come capitò ad altri confinati che furono costretti a trovare un lavoro per provvedere al proprio sostentamento, anche Cassone dovette industriarsi e così mise a frutto la sua arte pittorica, dipingendo per privati, magari barattando, pregevoli quadri raffiguranti paesaggi, nature morte o soggetti sacri. Ne è testimonianza il suggestivo ritratto del contadino Rocco Lasaponara in groppa alla sua superba giumenta Sinella, realizzato in cambio di un tomolo (40 kg) di grano. L’opera è stata miracolosamente recuperata e fatta restaurare dal nipote Rocco, oggi settantottenne e già dirigente del Comune di Stigliano, dopoché per molti anni essa aveva rischiato di perdersi durante i trasferimenti della famiglia nelle masserie dislocate nel territorio: Monticchio, Marra, Leo ed altre ancora. Trasferitosi dopo la guerra ad Alba e successivamente a Bra e poi a Boves, dove morì nel 1975, Cassone realizzò molte opere pittoriche di apprezzabile livello, come la grande tela, dedicata al Beato Sebastiano Valfrè, che è conservata nel santuario di Verduno, presso Cuneo.

    Da La voce dei Calanchi n.123