20/04/2017
Estratto da "La Casa con gli occhi"
Tutto era stato completato e ben organizzato.
Gli ultimi ritocchi per la festa spettavano al Sindaco che, in abito scuro, aveva passato in rassegna ogni angolo del piccolo paese ed aveva impartito gli ultimi ordini ai volenterosi che si erano prodigati in settimane di sacrifici.
Anche il vecchio Cassarmonica aveva completato la costruzione del suo immenso palco di legno che avrebbe custodito la banda. La sua grande abside, di lì a poco, avrebbe diffuso nell'aria suoni di trombe e tonfi di timpani che avrebbero provocato brividi di commozione.
Il Corso del paese era stato completamente restaurato: era stato eliminato un asfalto luttuoso che aveva sepolto il selciato di Gorgoglione, erano stati riordinati i marciapiedi e tutto era stato ricostruito seguendo le antiche usanze lucane.
Ora il Corso brillava di nuova luce riflessa dalle ondulazioni irregolari della pietra ed i marciapiedi avevano ripreso a presidiare con orgoglio quella vecchia strada che si incuneava all'interno del paese.
Il progetto era stato curato con molta attenzione ed ogni particolare era stato studiato nel dettaglio per offrire ai cittadini ed alle antiche dimore del centro storico un giusto e meritato decoro.
Ad ogni nuovo lampione di ghisa seguiva una panchina in pietra ed un giovane albero di elce, talché la prospettiva dell’insieme appariva equilibrata e ben dosata.
Era giunto il giorno dell'inaugurazione e la febbre della festa leopardiana saliva nei cuori dei giovani e dei vecchi che si apprestavano ad indossare gli abiti da cerimonia.
Dal fondo del viale, diluite dai languidi umori di un pomeriggio di primavera, cominciavano ad udirsi le note banda che a finché dalla curva a gomito che sc burrone apparve scintillante l'asta del capobanda. Era lucida e abbagliante e si agitava con ritmo convulso verso un cielo bianco che, taciturno, ascoltava.
Gli uomini in divisa sfilarono a passo ritmato davanti occhi dei compaesani, con espressioni serie e coinvolgenti.
I commercianti, con le mani intrecciate dietro la schiena, seguivano con allegria colorì della parata, un occhio alla piazza, uno alla bottega.
Gli occhi sugli strumenti lanciavano a tratti fugaci controlli all'asta d'ottone che batteva il ritmo; il concerto accattivante delle trombe avvolgeva il paese in una melodia struggente e romantica che stringeva la gola ed a stento faceva trattenere le lacrime.
Poi, il palpito dei timpani delle grancasse perse poco poco l'accento fino a spegnersi in un malinconico fremito dietro le quinte lontane della Chiesa.
Dalla parte opposta del marciapiede vidi un ometto con il cappello in mano ed una corona di capelli bianchi che circondava una bella nuca vellutata. Mi guardava con insistenza come per avvisarmi che avrebbe voluto parlarmi e, senza darmi il tempo di ordinare le idee per valutare almeno se lo conoscessi, all'istante attraverso la strada e mi si piazzò di fronte.
Non lo conoscevo.
Trascorremmo alcuni minuti a conversare del più e del meno finché, con gli occhi a terra in sogno di imbarazzo mi disse:
“Sapete... io ho qualche problema laggiù con il mio negozio” ed indico con il braccio teso una zona indefinita del Corso.
“Che vi succede!" esclamai con vigore per dar conforto alle sue titubanze.
“Ecco”, ribatté, “Il negozio non va più come prima...c’è un problema che…ecco... io penso che si debba risolvere” e subito aggiunse:
“Spero di non disturbarvi... se mi permetto di parlarvi in questo modo...ma vedete qui non entrano più...le ragazze”.
Rimasi un istante in silenzio guardandolo nei suoi occhi benevoli per cercare di cogliere nella sua espressione qualche segnale che mi permettesse di celare il mio stupore e che al contempo mi aiutasse a trovare una risposta logica alla sua affermazione. Quindi, vedendo che il suo sguardo era tornato al suolo, con gentilezza chiesi:
“Ma scusate, come fate a dire che le ragazze non entrano più nel vostro negozio! Significa che in pratica i ragazzi entrano e le ragazze del paese rimangono fuori? Scusate ma proprio non capisco”.
“Ma vedete” disse con tenera espressione, "Non e che le ragazze rimangano fuori…è che le ragazze non passano più su quel marciapiedi di fronte alla mia bottega” e continuò: “Quando arrivano nei pressi della mia vetrina, atrraversano la strada e passano al marciapiede opposto”.
Ero davvero incuriosito dall'atteggiamento del misterioso vecchietto tanto che sospettai che si stesse prendendo gioco di me. Ma subito con molto garbo si avvicinò al mio orecchio e, guardando lontano per dare maggior risalto a ciò che mi avrebbe annunciato, aggiunse: “è per via di quella panchina...vedete, quella laggiù davanti alla vetrina”.
Il suo negozio era angusto ma abbastanza profondo e con ogni probabilità aveva preso il posto di qualche antica bottega. Al suo interno si vendeva di tutto, dai giornali alla Coca Cola, dalle bocce alle bambole e poi ancora spazzolini da denti, marmellate, scope di saggina e secchi di plastica.
Ci avvicinammo al negozio camminando uno accanto all’altro e quando fummo di fronte alla vetrina, l'ometto disse:
“Questa panchina...vedete, è capitata proprio davanti vetrina della mia bottega…ecco vedete, è proprio qui, sembra che qualcuno abbia preso le misure per piazzarla al centro della porta”.
Osservai con interesse i gesti marcati e le espressioni intense dell'uomo che pareva aver perduto il suo iniziale pudore.
Tuttavia non riuscii a trovare il nesso tra la presenza della panchina e la fuga delle ragazze.
Era vero, la panchina era capitata proprio nel mezzo della vetrina; d'altra parte l'Impresa aveva rispettato il rigore e la simmetria del progetto: un lampione, una panchina, un albero e di nuovo un lampione, una panchina ed un altro albero e così via fino alla fine del Corso; d'altronde, pensai, una panchina di fronte ad una vetrina permette osservare la merce esposta con maggiore attenzione; accade nei centri storici di Parigi e di Roma e non mi risulta che le ragazze francesi, in prossimità di una panchina mutino drasticamente il tragitto della loro passeggiata.
Ero rimasto troppo a lungo assorto nelle mie riflessioni e giustamente il vecchietto mi richiamò prendendomi delicatamente un braccio e proseguì:
“Su questa panchina, che si trova proprio al centro del Corso, siedono i giovanotti che il pomeriggio vagabondano in su in giù lungo la strada.
Si accalcano a grappoli, spesso uno sull'altro, schiamazzando e gridando; scherzando si scherniscono, giocano e saltano.
Hanno tutti i capelli impomatati, indossano tutti gli occhiali scuri e le scarpe alla moda”, si accostò ancora e sottolineò: “Quando una ragazza osa passare tra la mia vetrina e la loro panchina, i commenti dei giovani si trasformano in un crescendo da caserma che turberebbe la più navigata frequentatrice di marciapiedi”.
Aveva in un sol fiato svuotato tutto il male oggetto delle sue sventure e, emesso un profondo respiro, bisbigliò: “Quei giovanotti scostumati guardano loro il sedere con insistenza; dunque quelle povere ragazze, giunte nei pressi del mio negozio, passano all'altra sponda”.
La serietà, il garbo e l'umiltà con le quali l'ometto aveva espresso le sue rimostranze mi colpirono al punto che ero riuscito a convincermi dell'errore nefasto commesso nella dislocazione delle panchine.
Ci congedammo con una stretta di mano sincera ed affettuosa.
La settimana successiva alla festa di inaugurazione, la panchina era stata traslata di tre metri.