Racconta

  • La chiave

    20/04/2017

    Luglio 1994, l’ordinanza del Sindaco era senza appello.
    Ai sensi del Decreto di Giunta Regionale n.147 del 15 maggio 1994, i residenti negli alloggi di Piazza Cisterna dovranno sgomberare le proprie residenze ubicate in area dichiarata inagibile ed interessata da movimenti franosi. Alle famiglie ed ai singoli abitanti si dichiara a tutti gli effetti di legge la inabitabilità dell’area per ragione di sicurezza.             

    ORDINA

    Pertanto ai proprietari, agli occupanti e a chiunque ne faccia uso, lo sgombero completo dei locali.

    DISPONE

    La notifica della presente ordinanza a tutti gli occupanti a qualsiasi titolo dei fabbricati, la pubblicazione sull’albo pretorio e l’invio della presente ordinanza alla stazione Carabinieri ed alla polizia locale.
    Il presente provvedimento vale anche, ai sensi dell’art.7 della Legge 7 agosto 1990 n.241, come comunicazione di Avviso di procedimento.

    Una fila silenziosa si stava portando davanti all’ingresso del municipio. Nella piccola Piazzetta pavimentata con pietre grigie avanzavano piccoli gruppi di persone, qualche bambino tenuto per mano, qualche cane libero che orinava sul muro scrostato.
    All’interno, seduto dietro ad una scrivania di lamiera, il funzionario aveva gli occhi sul suo foglio bianco diviso in righe e colonne tracciate a penna.
    A sinistra il cognome, seguito dal nome, al centro la data, a destra lo spazio per la firma.
    L’ordinanza era chiara e drammaticamente perentoria.
    Ciascuno avrebbe dovuto consegnare la chiave del portone della propria casa. La casa doveva restare accuratamente chiusa. Era l’unica prova tangibile che all’interno del vecchio alloggio non vi sarebbe stato più nessuno.
    Le case erano state chiuse con le chiavi, con i lucchetti, con i catenacci. Nessuno sarebbe più potuto entrare. La consegna della chiave liberava pertanto il comune da ogni tragica responsabilità.
    Il silenzio circondava la piccola scrivania. Sul fronte non vi era la sedia ed i bravi concittadini rispondendo alle disposizioni dell’Autorità si apprestavano a consegnare ciascuno la propria chiave nelle mani del funzionario.
    Quest’ultimo la faceva cadere in una scatola di latta senza coperchio e subito con l’indice indicava al compaesano la riga esatta nella quale apporre la firma.
    Tutto si svolgeva in silenzio, ordinatamente. Le figure che si avvicendavano davanti all’Autorità si piegavano in avanti quasi prostrandosi per apporre la firma nella riga giusta. Era un susseguirsi di inchini; afferravano la penna, indugiavano sul foglio per scrivere lentamente cognome e nome, deponevano delicatamente la penna sul margine e con un debole sorriso di obbedienza, si allontanavano salutando i concittadini ancora in fila.
    Una donna sola con i capelli neri legati da una treccia lucida si fece avanti e rimase ritta in piedi davanti al funzionario seduto sulla sedia di legno.
    Questi con gesto automatico indicò con l’indice il luogo dove apporre la firma ma ben presto, con la coda dell’occhio, si accorse che la persona davanti a sé rimaneva eretta in piedi quasi a voler interrompere per un attimo quel rito ripetitivo e spersonalizzato.
    Il funzionario sollevò lo sguardo e fu colpito dagli occhi umidi della donna e dalla sua espressione supplichevole.
    “Antonietta, buongiorno” - le disse accennando un sorriso bonario. Antonietta lo fissò negli occhi con uno sguardo pieno di malinconia, poi rispose con un filo di voce accompagnato da un sorriso triste: “Buongiorno Rocco, buongiorno”. Rocco la stava osservando con curiosità crescente quando notò una riga di lacrime sui suoi occhi neri.
    “Antonietta. Ma che vi succede! Non vi sentite bene?”
    “No Rocco, no” - rispose lei “E’ che…è che io in quella casa ci sono nata e….ho trascorso lì tutta la mia vita…”
    “Capisco”- rispose Rocco, “Capisco bene il dolore che si può provare quando si debba abbandonare un luogo così importante e così ricco di memorie”
    “Infatti”- riuscì a sillabare Antonietta e subito aggiunse: “Ho vissuto lì con mio padre e mia madre e con le mie due sorelle. Sapete, Rocco, che i miei ci hanno lasciato qualche anno fa e quella casa…per me è piena di ricordi…”
    Il funzionario Rocco non poteva indugiare oltre, la fila all’esterno della stanza iniziava a rumoreggiare. Rientrò immediatamente nel suo ruolo severo e rivolto alla donna disse: “Antonietta avete portato la chiave?” “Si” - rispose lei, e Rocco: “Bene, allora mettete la vostra firma qui e consegnatemela”.
    Antonietta estrasse lentamente dalla sua tasca la chiave.
    Era molto grande, in ferro forgiato. Era levigata e lucida. Stropicciata per anni e anni, passata di mano in mano dai vecchi ai figli e da questi ai bambini. La storia della famiglia era impressa in quel pezzo di ferro inanimato e Antonietta lo serrava stretto nella sua mano quasi a volerlo ancora riscaldare prima di abbandonarlo.
    Si fece coraggio: “Scusate Rocco, sapete quanto è stata importante quella casa per la mia famiglia…per i miei figli…è parte della mia vita…è intrisa di gesti, di ricordi di lunghi anni trascorsi all’interno delle sue mura”.
    Rocco la osservava con compassione sincera, poi d’un tratto Antonietta curvò la schiena, posò la mano sinistra sulla scrivania, protese in avanti la destra serrando la chiave, avvicinò i suoi occhi al naso di Rocco e sussurrò quasi con vergogna: “La posso tenere?”.
    Rocco sollevò le sopracciglia imbarazzato, non ebbe la forza né il coraggio di negare, roteò gli occhi ai lati della stanza, tornò con lo sguardo sul viso di lei; poi si alzò di scatto dalla sedia e scomparve uscendo dalla porta interna della stanza.
    Dopo alcuni attimi rientrò frettoloso. Aveva ricevuto dal sindaco l’autorizzazione.
    Poteva consentire ad Antonietta di tenere la chiave.
    Scostò la sedia bruscamente, tornò ad occupare il suo autorevole scranno, rivolse lo sguardo ad Antonietta e la pregò rapidamente di apporre la sua firma.
    Poi con la soddisfazione di colui che autorevolmente può chiudere un occhio le disse: Su, su, tenetela, tanto qui nella scatola ce ne buttiamo un’altra!”

    Lodovico Alessandri